Di donne, genere e Cina

netBorg
7 min readMay 31, 2021

La Cina ha una storia millenaria, costellata di cadute e grandi riprese che hanno marchiato il percorso dell’intero continente asiatico. In questo lungo passato le donne hanno avuto un ruolo fondamentale segnato da contraddizioni e marginalizzazioni, sempre ad opera degli imperi e dei governi che si sono susseguiti nel tempo.

Cui Xiuwen, Angel n.4

Per ripercorrere la storia dell’emancipazione femminile cinese bisogna guardare con grande attenzione al ‘900, periodo storico molto turbolento per una nazione che attraversava cambiamenti repentini e che per diversi secoli aveva subito una grossa stagnazione dal punto di vista sia culturale che politico. Dal 1644 al 1911 la dinastia Qing aveva governato la Cina, portandosi dietro il peso dell’arretratezza tipica dei regimi imperiali che cominciavano man mano a non trovare più posto nella storia. Già gli intellettuali dell’epoca denunciavano la necessità di una svolta sul piano sociale, imprescindibile per allineare la Cina ai paesi occidentali, e man mano che la dinastia imperiale perdeva potere cominciava a serpeggiare l’idea che la donna doveva e sarebbe dovuta essere di lì in poi uno degli attori principali per rilanciare il paese, sia dal punta di vista economico che politico. La figura della donna per la prima volta nella storia della Cina aveva non solo il millenario compito del lavoro riproduttivo, ma anche quello di servire la nazione per farla progredire.

Questa mossa fu ovviamente strumentale per i fini politici ed economici del paese. Se da una parte questo passo in avanti poteva essere visto come uno slancio progressista che avrebbe dovuto proiettare la Cina nel futuro, dall’altra parte c’era chi come He Zhen, anarcofemminista dell’epoca, sottolineava come questa strategia avesse molti limiti, uno fra tanti quello di ridurre l’oppressione delle donne ad una questione meramente economica. He Zhen suggeriva che se c’era da ricercare una causa nell’oppressione della donna, questa andava trovata negli insegnamenti del confucianesimo, che avevano relegato la donna esclusivamente alla sfera domestica. Le donne non andavano liberate in quanto potenziale soggetto economico, ma in quanto esseri umani alla pari degli uomini. Un altro punto centrale del pensiero di He Zhen verteva sull’istituzione della famiglia: uno dei passi necessari per una maggior uguaglianza tra uomini e donne doveva essere il superamento dell’istituzione familiare e della concezione per cui la crescita della prole debba essere un’attività unicamente femminile.

Col vuoto di potere lasciato dalla dinastia Qing nel 1911, la Cina attraversa quasi un decennio in balìa della destabilizzazione politica. Nasce, in preda ai rigurgiti per l’imperialismo, il Movimento del 4 Maggio 1919, che accusava il governo cinese di aver rovinato il paese con i valori del confucianesimo. Nacque, dalle istanze del movimento, il concetto di “Nuova Cultura” e anche quello di “Nuova Donna”. Fino a quel momento la figura della donna era relegata ad una sfera esclusivamente privata, coerentemente con i principi binari della famiglia ispirati allo Yin e lo Yang. La donna era il dentro, l’uomo il fuori. Il concetto di “Nuova Donna” fu una svolta di questa visione: essa doveva contribuire attivamente allo sviluppo del paese, assumere una propria identità e liberarsi dalle quattro mura della casa facendosi carico finalmente un ruolo anche “pubblico”.

Dopo la nascita della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 sotto la guida di Mao Zedong, il paese attraversò un periodo che lo porterà al cosiddetto “grande balzo in avanti”. La Cina vede crescere in modo esponenziale il proprio apparato industriale, attraversando nello stesso periodo una delle più grandi carestie della storia dell’umanità. A Mao Zedong viene solitamente attribuito il grande merito di aver migliorato la condizione della donna seppur con i limiti che hanno accompagnato tutta la storia delle donne nel ‘900 cinese; utilizzata per fini propagandistici, di facciata e di sfruttamento economico, la figura della donna in realtà vedeva gravare su di essa ulteriori fattori di impiego oltre al già immenso lavoro riproduttivo che apparteneva alla sua sfera. La propaganda di Mao e del Partito Comunista aveva un obiettivo preciso: mobilitare al lavoro quante più donne possibili, le sole che avrebbero potuto aiutare a reggere l’immenso sviluppo socio-economico che la Cina avrebbe affrontato da lì a poco. La donna divenne nell’immaginario politico cinese simbolo della rivoluzione, veniva ritratta nei poster di propaganda come giovane e vigorosa, mascolinizzata e poderosa, ma allo stesso tempo madre della nazione e del socialismo reale.

Li Hong, Conspiracy n.1

Dopo il periodo maoista, la storia dell’emancipazione femminile cinese va incontro ad un periodo di fervore che comincia nel 1995 a Pechino con la quarta conferenza mondiale sulle donne organizzata dalle Nazioni Unite. La conferenza diede il via alla nascita di diverse ONG cinesi con lo scopo di dare vita ad un attivismo femminista e legalizzato. Con questa conferenza, per la prima volta le donne cinesi sono state inserite in una rete internazionale di attivismo femminista che ha fatto confrontare le donne cinesi con altre realtà globali. Questo incontro ha anche poi suscitato una spaccatura all’interno del movimento delle donne in Cina; se da una parte ci sono movimenti che si riconoscono come femministi, accettando di fatto un termine che solitamente è stato considerato occidentale e dunque di importazione, dall’altra ci sono associazioni e movimenti che questa etichetta preferiscono non adottarla, allineandosi ad un “femminismo” di tipo governativo. Quest’ultimo è stato utilizzato dal governo per giustificare l’opinione che solitamente ha il Partito Comunista dei movimenti che si muovono fuori dalle fila governative, i quali vengono spesso vengono perseguiti.

Tra i movimenti femministi non governativi contemporanei, spiccano sicuramente quelli identificati sotto l’etichetta del “C-Fem”. Il termine “C-Fem” è stato coniato dalle accademiche cinesi Angela Xiao Wu e Yige Dong per tenere insieme e descrivere tutta quella serie di valori e rivendicazioni che oggi il movimento femminista cinese porta avanti. Il “made in China feminism”, sempre utilizzando una espressione di Xiao Wi e Yige Dong, si divide in aree più liberali ed altre più interventiste e radicali, e si oppone fermamente alla visione eteronormata della società, contestando tutte quelle strutture di potere che ancora permangono e che vedono la donna come soggetto dipendente dall’uomo, dal matrimonio, passando per il lavoro domestico e le pressioni legate alle aspettative sociali. Oggi la violenza sessuale, di genere, e la persecuzione delle attiviste e delle minoranze in Cina sono temi fondamentali nella lotta all’emancipazione, e ne sono testimone diversi accadimenti che hanno segnato il percorso del femminismo in Cina negli ultimi vent’anni. Emblematico è il caso delle “Feminist Five”, cinque attiviste femministe che furono arrestate l’8 marzo del 2015 a Pechino, accusate di fare attivismo sovversivo. Le attiviste furono rilasciate dopo un mese di detenzione, e anche dopo il loro rilascio furono perseguitate dalle autorità. Di grande rilevanza fu il supporto che ricevettero in tutta la Cina soprattutto online, con l’hashtag #freethefive che spopolò sulle piattaforme di WeChat e Sina Weibo. Non è un caso che il movimento femminista cinese oggi si muova prevalentemente online, anche per aggirare il controllo e la repressione da parte delle autorità cinesi, nonostante comunque vi sia un grande problema legato all’hate speech, con utenti spesso pagati dallo stesso governo per contrastare la loro attività.

Cui Xiuwen

Nonostante la Cina abbia abbracciato pienamente il capitalismo globale, oggi assistiamo ad un ritorno ai valori confuciani. Specialmente sotto il governo di Xi Jinping, il confucianesimo è stato rilanciato per rimettere al centro la figura dell’uomo forte e virile. La figura della donna sta tornando man mano a rivestire nell’immaginario sociale il ruolo di madre e oggetto del desiderio maschile, e le sue rappresentazioni convergono sempre più verso ideali di bellezza standardizzati e corpi estremamente sessualizzati. Oggi in Cina le donne e la comunità LGBT+ sono perlopiù soggetti spendibili al mercato globale e questo apre a campagne di pink e rainbow washing (per maggiori approfondimenti a riguardo vi rimandiamo a questo articolo di Federico Picerni uscito su Gender China). “Per il capitale e la classe dominante, l’esistenza delle soggettività queer viene riconosciuta solo quando diventa consumante e consumabile” scrive Picerni, e ciò che di fatto accade è ancora una discreta marginalizzazione delle minoranze che restano non tutelate dalla legge. A questo proposito la violenza di genere è stata riconosciuta solo nel 2001 dalla legislazione cinese, senza però tutelare la comunità LGBT+ che è ancora esclusa dal discorso pubblico.

Nonostante le differenze storiche e culturali con l’Occidente, il patriarcato si dimostra essere una problematica transnazionale che non conosce confini. La marginalizzazione delle donne e delle soggettività non conformi, come dimostra la lunga storia della Cina, affonda le radici nell’antichità, strumentale ad alimentare rapporti di forza che hanno escluso e cancellato intere comunità. Il capitalismo globale, una volta affermata la propria egemonia, cala la maschera ribadendo con tenacia il dominio maschiocentrico. Ciò conferma la necessità di un fronte intersezionale ed internazionale di lotta alle discriminazioni, che abbracci tutti i particolarismi e veda proliferare azioni pratiche di conflitto.

A differenza del passato, il futuro delle donne e di tutte le soggettività non conformi attende soltanto di essere scritto dalla loro imprescindibile prospettiva.

Questo articolo è stato elaborato a partire dalla diretta con Cristina Manzone e Patrizia Piscitelli, che curano il progetto Gender China. Puoi recuperare la diretta completa sul nostro canale YouTube.

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